Gentiloni va oltre la direttiva europea sulla riduzione delle plastiche
I sacchetti “bio” a pagamento penalizzano i consumatori e non aiutano l'ambiente
Ne beneficeranno i nuovi produttori d’imballaggi. Balle colossali per frenare il riuso delle borsine per l’ortofrutta. Occorre superare la pratica dell’usa e getta

Dal primo gennaio del 2018 un decreto ministeriale, in recepimento di una direttiva europea, ha introdotto l’obbligo di utilizzo dei sacchetti biodegradabili per gli alimenti freschi e sfusi, a pagamento per i consumatori. La vicenda ha scatenato un grande dibattito, in particolare sui social, il cui frastagliato sviluppo è stato capace di frazionare anche il già eterogeneo fronte ambientalista. Innanzitutto se n’è fatta una guerra di cifre ma in realtà il costo medio della bustina nella grande distribuzione si aggira intorno ai due centesimi di euro, e comporterebbe una spesa fra i sei ed i dodici euro annui a famiglia. Un importo non di poco conto se lo si moltiplica per le famiglie consumatrici del nostro Paese. Tuttavia la questione principale rimane quella ambientale, ed in particolare l’efficacia di una misura che dice di andare nella riduzione del minore impatto in termini di produzione di rifiuti e di energia. Sappiamo bene che il costo del cosiddetto packaging di ogni merce è sempre ricaduto sul consumatore finale, anche se a seguito della normativa l’importo di queste bustine deve essere presente in scontrino; è proprio questo l’aspetto principale che dovrebbe funzionare da deterrente, secondo i legislatori.

Le accuse alla Novamont, amica di Renzi
Nel mirino di una parte dei contestatori è finita la Novamont, azienda di Terni produttrice di sacchetti biodegradabili e leader in Italia, il cui amministratore delegato è Catia Bastioli, scienziata pluripremiata e inventrice del polimero Mater-Bi derivato da sostanze vegetali, e che annovera tra le numerose nomine in Cariplo, Kyoto Club ecc., anche la presidenza di Terna, colosso energetico che poco ha a che vedere con l’energia “verde”. Bastioli, renziana dichiarata, è intervenuta anche alla Leopolda nel 2011 e, pur non essendo l’unica produttrice del prodotto, si aggiudicherà senz’altro una larga fetta di questo nuovo mercato creato appositamente dal governo. A difendere la Novamont a spada tratta è Legambiente, sostenitrice della legge, che tesse le lodi di questa azienda che ha “una leadership mondiale sul tema, grazie a una società che è stata la prima 30 anni fa a investire in questo settore, e che negli ultimi 10 anni ha permesso di far riaprire impianti chiusi, riconvertendoli a filiere che producono biopolimeri innovativi che riducono l’inquinamento da plastica”. Altro elemento, per Legambiente, sufficiente a garantire la linearità del mercato, è il fatto che vi siano “almeno un’altra decina di aziende concorrenti”; tuttavia lo stretto legame che accomuna l’associazione ambientalista più “legalitaria” d’Italia al PD non ci rasserena. Non ce ne voglia Ermete Realacci, deputato del PD e contemporaneamente Presidente onorario di Legambiente, ma il suo conflitto di interessi è fin troppo evidente. L’unico punto che condividiamo dell’analisi di Legambiente stavolta è il sollecito dell’associazione al ministero affinché si consenta “a chi vende frutta e verdura, di far usare sacchetti riutilizzabili, come ad esempio le retine, pratica già in uso nel nord Europa”.

L’applicazione della direttiva europea
Anche sull'obbligo europeo e sulla decisione del governo c'è da chiarire meglio poiché la legge in vigore recepirebbe la direttiva europea 720 del 2015 che ha sì come obiettivo la riduzione dell'utilizzo di plastiche dannose per l'ambiente a partire dalle buste per la spesa, ma è altrettanto vero che l’obbligo imposto da Gentiloni non è contenuto nella direttiva, che permetteva invece di escludere i sacchetti ultraleggeri (quelli usati per frutta e verdura). È vero dunque che la norma è stata recepita dall'Italia in maniera più stringente, e tuttavia le ripetute latitanze dell’Italia nell’applicare le direttive, in particolare in tema ambientale (vedi ad esempio il ripristino dei depuratori che costano all’Italia ogni anno milioni di euro in sanzioni), la dicono lunga sui buoni propositi del governo e sull’opportunismo d’interesse che muove ogni suo passo.

Sacchetti biodegradabili che oggi finiscono in discarica
Il governo ha reso obbligatorie e a pagamento dichiarato le buste “biodegradabili” dopo aver cominciato a incentivare gli impianti per la produzione di biogas e biometano dai rifiuti organici, in accordo con le politiche energetiche dell’Ue. In questi impianti però tali buste rappresentano più un problema che una facilitazione, al punto che spesso vengono eliminate in ingresso poiché hanno tempi di decomposizione diversi dal contenuto umido, e rimangono intrappolati fra le lame dei trituratori fermando il processo. Per fare un esempio, l’impianto di Bolzano ne ha sempre sconsigliato l’utilizzo nella raccolta dell’umido. Un paradosso, considerato che nella stragrande maggioranza degli impianti di compostaggio si usa la stessa tecnologia dei trentini. Volendo adesso sorvolare sulla bontà o meno degli impianti a biomasse da rifiuti che necessiterebbe di un capitolo a parte, queste due strade sembrano sempre più divergenti: da una parte cresceranno rapidamente questi impianti, mentre dall'altra ci saranno venticinquemila tonnellate di buste da smaltire, con ulteriori costi che ricadranno nelle tasche della popolazione. L’unica cosa certa è che noi “consumatori” pagheremo due volte le buste: la prima al supermercato per il sacchetto e la seconda nella tariffa rifiuti, visto che i costi di smaltimento degli scarti vengono ribaltati in bolletta. Ciò esentando i casi, diffusi, nei quali il peso della merce in bilancia al supermercato è già gravato dallo 0,05 di tara; stavolta la spesa sarebbe addirittura tripla.

Eliminare la pratica dell’usa e getta
Come si può valutare questa scelta se non come l’ennesima misura per incrementare i profitti, se anche l’ONU sostiene che sarebbe più opportuno abbandonare l’usa e getta piuttosto che promuovere le bioplastiche? La stessa Rete europea delle agenzie ambientali, di cui fa parte anche l’Ispra, ha chiesto a Bruxelles “un approccio consapevole sull’uso delle bioplastiche”, evidenziando che per promuoverne “la produzione e l’uso su larga scala, questi prodotti dovranno misurarsi con il bisogno di essere completamente degradabili”. Se infatti associazioni come Legambiente ritengono che i sacchettini per l’ortofrutta siano un passo avanti nella lotta all’inquinamento del mare dalle plastiche, per gli esperti del network europeo “le plastiche bio non possono essere considerate veramente biodegradabili al momento. Dati affidabili sugli effetti ambientali, in particolare sul suolo e sulle acque marine, non sono disponibili”. Al contrario, numerosi studi scientifici a livello mondiale confermano i tempi molto lunghi necessari ai sacchetti in plastica biodegradabile per smembrarsi in mare. Ricordiamo che gli shopper di plastica rimangono uno degli elementi più soggetti a dispersione nell'ambiente con conseguenti danni agli ecosistemi terrestri e marini ed alle relative catene alimentari.

La balla “sanitaria”
A seguito di questa girandola di polemiche, il Ministero ha aperto alla possibilità di portare le borsine da casa a patto che esse siano monouso; la motivazione per questa necessità sarebbe il potenziale inquinamento batterico nel riutilizzo degli shoppers. Oltre a non spostare nulla dal punto di vista economico (anzi, le bustine costerebbero più a singoli che nelle rivendite della grande distribuzione), concordiamo in questo caso con la posizione di ZeroWaste (Rifiuti Zero) che ritiene questa argomentazione irricevibile poiché se solo si pensa a tutta la filiera di produzione, raccolta, trasporto, distribuzione della ortofrutta, capiamo che stiamo parlando di alimenti che arrivano al supermercato già contaminati da una carica batterica sostenuta, e non sarebbe certo il fatto di metterli in una borsina riutilizzabile a creare problemi per la salute delle persone.

Nessun aiuto all’ambiente
Tuttavia, avremmo meno da dire se il Ministero, pur incomprensibilmente ignorando l'alternativa corretta per noi rappresentata dalla borsina riutilizzabile, pratica ed economica, che promuove il riuso anziché l’usa e getta e risulta immediatamente adottabile, avesse scelto ad esempio buste in carta riciclata per l’ortofrutta. Questa opzione avrebbe intanto eliminato i costi ambientali derivanti delle coltivazioni di mais e patate necessarie a produrre gli shopper “bio”, incluso il consumo di suolo, di acqua e di energia, potendo contare su materiale già disponibile in seguito alla raccolta differenziata, facendo così rimanere in essere esclusivamente i costi di trasformazione dalla materia al prodotto finale. Comunque sia, neanche stavolta si tocca il cuore del problema poiché, montagne di plastica, di vaschette in polistirolo, di altri tipi di inutili imballaggi che avvolgono irrisorie quantità di alimenti, rappresentano ancora lo strapotere diretto della grande distribuzione che detta le regole del mercato, incluso quello degli imballaggi che comunque, su scontrino o no, tutti noi profumatamente paghiamo. L’imballaggio stesso, l’80% dei rifiuti prodotti, diventa anch’esso merce di profitto e mai una semplice necessità, tutto scaricato sugli impotenti consumatori finali. Le stesse regole sull’igiene, o le direttive quadro europee, sono strumentali, un pretesto per regolare il consumo a tutto vantaggio dei capitalisti sul mercato; il tutto sciacquandosi la bocca con dichiarazioni a tutela dell’ambiente. Ma come si può credere a questi signori, gli stessi che lasciano impunemente utilizzare un agente mortale come il glifosato nei campi coltivati di tutto il mondo, Italia compresa?

10 gennaio 2018